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Basil – Wilkie Collins

BasilBasil by Wilkie Collins

My rating: 3 of 5 stars

Opera giovanile di Collins, che dimostra già la sua capacità di avvincere il lettore, ma la cui creazione dei personaggi lascia un po’ a desiderare (rispetto alla creazione di personaggi che poi Collins ha saputo dimostrare in opere successive).

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Parlarne tra amici – Sally Rooney

Parlarne tra amiciParlarne tra amici by Sally Rooney

My rating: 4 of 5 stars

Quattro stelle e mezzo, per la verità.
E’ difficile spiegare quanto mi sia piaciuto questo libro. Apparentemente è una storia banale: una ragazza di 21 anni troppo introspettiva e insicura ha una relazione con un uomo sposato più grande di lei. A differenza di quanto si legge/sente in giro, l’originalità o il valore di questa narrazione non sta nel fatto che il dialogo tra i protagonisti si svolga anche via email o con qualche sms. In questo non c’è niente di speciale.
Quello che io ho adorato è la capacità totale di rendere l’introspezione della protagonista in uno stile completamente paratattico e privo di descrizioni sui sentimenti. Noi sappiamo quello che prova solo vedendo ciò che le succede o ciò che fa.
La narrazione è completamente credibile, dall’inizio alla fine, la capacità di tutti i personaggi coinvolti nel complicare i rapporti è verosimile e per me l’identificazione con la protagonista (aspetto comunque non necessario) è stata totale.
Insomma, Sally Rooney scrive benissimo e può veramente scrivere di qualsiasi cosa.

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L’amico perduto – Hella Haasse

L'amico perdutoL’amico perduto by Hella S. Haasse

My rating: 3 of 5 stars

Un’amicizia tra due ragazzini (un olandese e un indonesiano) cresciuti in Indonesia ai tempi dell’occupazione olandese. Il romanzo tenta di raccontare di come un’amicizia spontanea si trovi ad evolvere anche negativamente a causa delle differenze sociali e razziali tra i due, ma in realtà quello che riesce meglio all’autrice è la descrizione dei luoghi e dei paesaggi dell’amata Indonesia nella quale è cresciuta.

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La lettura perfetta per l’8 marzo 



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Mostra Robert Capa allo Spazio Oberdan a Milano

capa

Robert Capa è stato un fotografo ungherese.

I suoi reportage rendono testimonianza di cinque diversi conflitti bellici: la guerra civile spagnola, la seconda guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana e la prima guerra d’Indocina (fonte: Wikipedia).

La mostra dedicata al fotografo allo Spazio Oberdan si concentra su un periodo specifico di attività, ovvero il periodo tra il 1943 e il 1944 in cui seguì l’esercito americano in Italia, documentandone la campagna.

Si tratta di foto tra loro piuttosto diverse, ma che si possono ricondurre fondamentalmente a due grandi filoni: le persone e la guerra in sé e per sé. Nel primo filone vediamo soprattutto gli “italiani liberati”. Ci sono tantissime foto di siciliani in festa, bambini, persone che cercano di tornare alla normalità postbellica. Oppure una breve serie in un ospedale improvvisato in una chiesa: allo stesso tempo intime e distaccate. Nel secondo filone invece è rappresentato l’esercito che avanza, i caduti trasportati, i militari in divisa. Sono soprattutto questi scatti a mostrare l’antieroismo della guerra: le ore di appostamento, le lunghe marce, lo squallore che circonda i soldati.

Non è una mostra immensa, ma è sufficiente a mostrare la bravura del fotografo nel cogliere alcuni aspetti importanti della campagna in Italia e la situazione che viveva il nostro Paese in quel periodo.

Non sono né un’esperta di mostre, né un’esperta di fotografia in generale, però posso dire solo che la mostra mi è piaciuta molto e che consiglio a chiunque di andarci, anche se non ha una particolare propensione per il contenuto o per il mezzo espressivo. Le foto parlano da sé, a chiunque.

La mostra è a Milano fino al 26 aprile, allo Spazio Oberdan, in Viale Vittorio Veneto 2. Informazioni sugli orari di apertura qui.

Disclaimer: hai scritto queste quattro righe di tua spontanea volontà, non sei stata pagata e nemmeno istigata per farlo e l’unica motivazione è da ascriversi al tuo entusiasmo per la mostra stessa.

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Giallo uovo di Carlo Flamigni


Ho letto questo “giallo” un po’ per caso, perché mi piace intervallare letture serie con altre di intrattenimento e perché in questa estate fatta di molti spostamenti preferivo romanzi brevi a tomoni infiniti che rischiano di lasciarti a metà sul più bello tra un imbarco e un atterraggio. “Giallo uovo” è perfetto da questo punto di vista, si legge in un giorno.
La trama, in breve è questa: c’è un’organizzazione malavitosa che prospera sulle colline romagnole. Il “delfino”, nonché genero del grande capo, ha un’amante giovane, bellissima e arrivista, che vorrebbe di più dalla sua relazione clandestina e sa che l’unico modo per ottenere di più dal suo uomo è dargli il figlio (maschio) che non ha potuto avere dalla moglie (la figlia del capo, nonché lesbica). In questo si fa aiutare da uno dei tuttofare della banda, tale Primo, detto Terzo. Perché tutti in questo romanzo, hanno un soprannome, come è d’uso nei paesini di Romagna e già i soprannomi sono spassosissimi.
La faccenda, come è facile presupporre, si complicherà e alcuni dei personaggi coinvolti moriranno. Sarà Primo a scoprire e a spiegare al capo della banda cos’è successo e a svelare alcuni dei misteri della vicenda.
Più che la trama in sé, interessante fino ad un certo punto, sono i personaggi, i modi di dire, l’uso colorito del dialetto romagnolo, il punto forte di questo romanzo. Io a leggerlo mi sono divertita moltissimo, tant’è che mi sono procurata tutti gli altri romanzi della serie, da tenere da parte per momenti tristi, blocchi del lettore o eventuali momenti morti in aeroporto.
Lo consiglio a tutti quelli che cercano un romanzo d’evasione, non troppo impegnativo, che faccia sorridere ma che sia scritto decentemente e che tenga compagnia.
Voi avete letto qualche allegro romanzo di intrattenimento questa estate o preferite il mattonazzo che duri tutta la vacanza?

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I Middlestein di Jami Attenberg

“I Middlestein” di Jami Attenberg è un romanzo breve, che parla di crisi familiari (e di un sacco di altre cose). La “sponsorizzazione” da parte di Franzen mi aveva inizialmente fatto dubitare se fosse il caso di acquistarlo e leggerlo, ma le recensioni positive da parte di gente di cui stimo i giudizi mi ha fatto propendere per il sì. Ho fatto bene. Jami Attenberg sa parlare di famiglie infelici in modo semplice, senza bisogno di cercare situazioni assurde e improbabili. I Middlestein sono infelici nello stesso modo in cui potremmo esserlo noi, ciascuno di noi a modo suo potrebbe trovarsi in situazioni simili o conoscere qualcuno così.
Un romanzo pieno di dipendenze e ossessioni. Edie, obesa che non riesce a smettere di mangiare perché per lei il cibo è amore. Suo marito Richard, che la abbandona dopo trent’anni di matrimonio perché non ne può più di vederla uccidersi con il cibo un attimo dopo l’altro, che non ne può più di farsi maltrattare da lei, che cerca una vita nuova a sessant’anni. I loro figli, Robin a cui piace bere e Benny, a cui piace farsi le canne. La nuora Rachelle, ortoressica ed esageratamente perfezionista, votata alla causa di salvare Edie dall’autodistruzione. I gemelli tredicenni Josh e Emily, la loro adolescenza piena di interrogativi.
C’è tantissimo cibo e non c’è mai nessuno che cucina, in questo romanzo (tranne in un unico momento, quasi alla fine del romanzo), popolato di personaggi imperfetti e per questo bellissimi, che cercano affetto a modo loro, a volte esigendolo (Richard e tutti i suoi appuntamenti di una sera), a volte non sapendo come chiederlo, rifugiandosi nelle soluzioni più a portata di mano (Robin) o nel dire sempre di sì e non fare niente (Benny), come facciamo tutti noi, nelle nostre vite reali.
La scrittura di Jami Attenberg è semplice e lineare, ci porta dentro la vita e la mente di ciascuno dei personaggi, aiutandoci a non giudicarli ma solo a voler bene, come se fossero parte della nostra famiglia.

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Stoner di John E. Williams

stonerHo letto in giro tante recensioni di Stoner, che è stato il caso editoriale del 2012 (io arrivo sempre tardi sui casi editoriali, stavolta si può dire che non è neanche andata malissimo, in genere faccio peggio) e devo dire che non tutte le ho capite. C’è stata gente che si è identificata nel protagonista, arrivando ad affermare cose tipo “Stoner sono io” (il che mi è sembrato presuntuosissimo), c’è stato chi ha parlato del protagonista come un perdente, un ignavo, uno che non fa niente per migliorare la sua vita.
A me personalmente non è sembrato.
Questa, in soldoni, la trama: il ragazzo Stoner viene mandato dai genitori (poveri) all’università a studiare agraria, con l’intento di fargli imparare teorie e tecniche che possano migliorare la coltivazione del loro disgraziato pezzetto di terreno. Lì ha un colpo di fulmine per la letteratura, cambia corso di studi e diventa insegnante. Si sposa con una donna che non lo ama, che fa di tutto per renderlo infelice e con cui avrà una figlia e, ad un certo punto della sua carriera si inimica un professore molto potente che farà di tutto per rendergli la vita difficile. Nel corso di questa vita, tutto sommato normale, Stoner mantiene un’integrità davvero sorprendente. E’ retto, non è mai meschino, non si approfitta di nessuno anche quando potrebbe, non si racconta bugie, rimane sempre fedele a se stesso e a ciò in cui crede.
E’ vero, non è un eroe, anzi. Ma non è squallido, non è un cialtrone, non è il personaggio che cerca la scorciatoia.
Io a Stoner mi sono affezionata moltissimo, quasi come a una persona vera, avrei voluto fosse il mio insegnante di letteratura (che poi io non ho nemmeno studiato letteratura, ho fatto il perito aziendale).
E poi, onestamente, i lettori che denigrano il protagonista non li capisco mica. Ma questo è un altro discorso.
Il fatto è che Stoner è scritto benissimo. Williams ha uno stile tale da far rivivere i personaggi dentro il lettore. Era facile immaginarseli, talmente autentici che mi sono sembrati tutti veri, dal giovane amico alla moglie detestabile, un compendio di umanità sorprendente.
Stoner è stato finora il romanzo migliore del 2014.

Per la quasi dimenticata rubrica “il giovedì del prodotto dimenticato” (assicuro però che il fatto che io non ne parli non significa che io non continui il mio buon proposito), il prodotto di oggi è la cialda “Quadrifoglio” della palette Scurissimi di Neve Cosmetics. E’ davvero un punto di verde scuro molto bello, che ho usato per la piega e l’angolo esterno dell’occhio, leggermente polveroso e un po’ paciugoso da sfumare. Tuttavia sono soddisfatta di averlo ripescato, cercherò di inserirlo in altri trucchi prossimamente.

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Sofia si veste sempre di nero – Paolo Cognetti

ImmagineVi piacciono i racconti? A me sì (se sono bei racconti, ovvio). Preferite i romanzi? Vorreste approcciarvi a buoni racconti, ma temete l’effetto “già finito”?

In questo caso “Sofia si veste sempre di nero” di Paolo Cognetti è il libro giusto per voi. Si tratta infatti di una raccolta di racconti che hanno tutti per protagonista Sofia, dapprima bambina, poi adolescente problematica, poi donna irrisolta. I racconti non seguono un ordine cronologico, saltano avanti e indietro nella vita di Sofia e la inquadrano da differenti angolazioni: il padre distratto, la zia politicamente impegnata, la coinquilina materna. Cambiando l’angolazione, Cognetti cerca di cambiare un po’ anche lo stile di scrittura, riuscendoci in parte. Lo stile è comunque l’aspetto migliore del libro: Paolo Cognetti scrive benissimo, la sua prosa riesce ad essere leggera pur utilizzando metafore vivide e azzeccate e tiene il lettore avvinto ad una trama (volutamente?) inconsistente e poco originale, per di più con una protagonista alla quale è difficile affezionarsi.
Ora sembrerà da queste righe che ho scritto che questo libro non mi sia piaciuto. In realtà lo considero una delle migliori letture del 2014 (fino ad oggi, ovviamente) e lo consiglio spassionatamente. Ne ho già regalata una copia, per dire.

Non aspettatevi il capolavoro. Ma un buon libro sì.

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La fattoria dei gelsomini

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Ce li avete voi gli “autori rifugio”? Quegli scrittori a cui tornate fiduciosi quando qualcosa non va nel vostro percorso di lettura, vi incagliate, inciampate in una sfortunata serie di libri meh e avete timore di incappare nell’ennesima delusione? Io ne ho alcuni, a seconda del tipo di lettura che voglio fare.
Elizabeth von Arnim è (era?) per me un’autrice rifugio per le letture di intrattenimento. Mi capita a volte (ultimamente spesso) di aver bisogno di letture leggere, non particolarmente impegnative, che mi coinvolgano facilmente anche in momenti in cui la testa vaga altrove e nella fattispecie in pensieracci tetri. Tuttavia in genere non mi soddisfano i “bestselleroni” voluminosi con copertine cartonate, angoli pungenti e immagini apocalittiche (o smielose) in copertina. Quando dico intrattenimento intendo ironia garbata, senso dell’umorismo, personaggi credibili, una prosa valida e una trama appassionante. Elementi che in genere si trovano nei romanzi della von Arnim e complessivamente nella letteratura di intrattenimento della sua epoca, quando saper scrivere era ancora un elemento imprescindibile per la letteratura anche di svago e non come oggi che la narrativa di intrattenimento fa spesso e volentieri a pugni con grammatica, sintassi e buon senso.
In questo “La fattoria dei gelsomini” c’è quasi tutto quello che cerco, ma non tutto. Manca quella “prosa tesa” sbandierata dalla casa editrice sul proprio sito. Con l’espediente di presentare i protagonisti del romanzo, la von Arnim li fa sedere attorno ad un tavolo da pranzo, davanti al dessert. Nella testa di ciascuno di loro fioriscono lamentele per quella sfogliata di uva spina acerba e bollente che li farà star male. Per oltre 40 pagine (su circa 300) i protagonisti non fanno altro che rimuginare sulla sfogliata (o crostata?) di uva spina. Uno strazio. Lo svolgimento del romanzo è lentissimo, ci mette quasi 200 pagine per arrivare al nocciolo della questione. E quando finalmente succede qualcosa (non dirò cosa, per non rovinare la sorpresa, anche se sulla quarta di copertina c’è praticamente tutta la trama) e l’azione si attiva, il lettore comincia a divertirsi, ciao, il romanzo è finito. Ma uffa.
“La fattoria dei gelsomini” contiene molti degli aspetti caratteristici della von Arnim. I personaggi sono ben tratteggiati e corrispondono sicuramente a soggetti tipici del suo tempo, dalla signora perbene all’arrampicatrice ingenua, fino alla bellissima cretina. Anche la fattoria, ovvero “il luogo nel Mediterraneo che grazie ai suoi benefici influssi risolverà tutte le magagne” è un dettaglio tipico dell’autrice, anche se sviluppato molto meglio in “Un incantevole aprile”, romanzo da cui consiglio di partire se si vuole conoscere questa autrice. A proposito, quest’ultimo titolo è in offerta a € 3,99 sul sito di BookRepublic (e penso in tutti i rivenditori di ebook), vale la pena di approfittarne. Le edizioni Bollati Boringhieri sono molto curate quanto a traduzione e impaginazione e non si trovano fastidiosi errori di battitura, si meritano la spesa.
Ho in libreria altri due titoli della von Arnim che aspettano di essere letti: “Vera” e “Una principessa in fuga”, spero che siano un po’ più vivaci di questo. Voi li avete letti?

Avete degli autori rifugio? Quali sono?